Varsavia, 5-6 settembre
2009
La profezia di Humanae vitae
e la verità dell’amore sponsale
per una procreazione responsabile
Livio Melina
A distanza di più di 40 anni dalla sua pubblicazione risulta in piena
luce il carattere profetico dell’enciclica Humanae
vitae di papa Paolo VI, che ancora oggi è nella Chiesa e nell’opinione
pubblica “segno di contraddizione”. Per coglierne la portata storica e
l’attualità dobbiamo chiederci che cosa veramente sia in gioco nel suo
insegnamento. Nel momento in cui fu pubblicata, la maggior parte dei
commentatori pensò che si trattasse solo di una questione di morale coniugale,
molto delicata per la vita di tanti sposi cristiani, oppure anche di un
problema di morale sociale legato al controllo della natalità di fronte al
fantasma di una sovrappopolazione. Si avvertiva peraltro che alla tematica
dell’Enciclica montiniana era sottesa una questione ecclesiologica relativa
all’interpretazione di quell’ “aggiornamento” con cui veniva identificato il
significato epocale del Concilio Vaticano II appena celebrato: era finalmente
possibile rompere con una tradizione normativa, che - secondo alcuni - sembrava
riflettere una millenaria sottovalutazione della sessualità in ambito
cristiano? Dirò subito la mia tesi: Humanae
vitae si è rivelata profezia di quella verità dell’amore, che è così
essenziale per la vita degli uomini e delle donne.
1. Analfabetismo affettivo, pansessualismo ed
emergenza educativa
Quando parliamo di profezia siamo abituati a pensare spontaneamente
soprattutto ad una capacità di previsione del futuro: ora questo è solo un
aspetto di ciò che costituisce la profezia nella Sacra Scrittura. Profeta è
colui che, parlando a nome di Dio, in primo luogo dà un giudizio sulla
situazione che si sta vivendo e che invitando alla conversione, proprio per
questo apre la strada al futuro. Prima di entrare nel merito di Humanae vitae vorrei descrivere rapidamente qualche tratto della situazione
che viviamo e vorrei farlo alla luce della preoccupazione anche recentemente
espressa da Benedetto XVI: l’“emergenza educativa”. Strategicamente cruciale
per la questione antropologica mostra di essere l’educazione all’amore,
soprattutto in riferimento a quello che si può definire l’apprendimento della
sua grammatica e della sua sintassi.
E infatti è stato segnalato il fenomeno di un crescente “analfabetismo
affettivo” diffuso nelle nuove generazioni[1].
Un’inchiesta recente svolta in ben 90 scuole nell’area di Southampton, in
Inghilterra, tra una popolazione di studenti che appartengono al ceto
medio-basso, in cui il 40% dei casi vive in famiglie composte da un solo
genitore, ha mostrato che questi ragazzini conoscono al massimo una decina di
parole relative alle emozioni e all’affettività: sono parole scarsamente
differenziate, generalmente volgari, che non consentono sottigliezze quando si
tratta di definire il proprio stato d’animo o di comprendere quello altrui. Il
fenomeno è allarmante: l’incapacità di rientrare in contatto con il mondo delle
proprie emozioni implica un’incapacità di comunicare e stabilire relazioni
adeguate con gli altri.
Potremmo dire che questo nuovo tipo di analfabetismo, rilevato da
sociologi e psicologi, significa un’incapacità di leggere e di scrivere. Incapacità di leggere le proprie
emozioni e i propri sentimenti, che fa sì che essi siano rimossi oppure che
esplodano incontrollatamente; incapacità di interpretare il proprio mondo
interiore e di dargli un senso all’interno di un quadro complessivo di
significato. Incapacità di scrivere
nella trama della propria esistenza e della storia ciò che si sente nel proprio
intimo, che rimane dunque inespresso o male espresso, incomprensibile e
irrealizzabile. La solitudine del contesto vitale, la mancanza di punti
autorevoli di riferimento, di maestri, di storie narrate, di comunità vissute
impedisce l’interpretazione delle emozioni e degli affetti, il riconoscimento
di un senso che li qualifichi e li orienti. Senza vocabolario, senza
grammatica, senza maestri non si impara a leggere e a scrivere. E’ questo il
problema decisivo per la formazione della persona: la necessità di un quadro di
riferimento interpretativo del vissuto emotivo e affettivo, che possa
costituire un contesto di senso capace di integrare l’esperienza, di renderla
comprensibile e costruttiva.
Per comprendere le dimensioni della sfida odierna, occorre considerare
che non ci troviamo di fronte solo ad un’assenza di educazione, ma anche ad una
strategia eversiva che tende a modificare la cultura attraverso una
manipolazione del linguaggio. L’emergenza educativa consisterà nell’aiutare i
giovani a ritrovare i significati costitutivi del linguaggio del corpo e
dell’amore, mostrando la loro corrispondenza al “cuore” dell’uomo, cioè a
quell’insieme di evidenze ed esigenze originarie, che costituiscono l’esperienza
elementare[2]. Solo così si può evitare la
deformazione delle coscienze e la crescita di una vera libertà personale.
Si
assiste oggi, d’altra parte, ad un paradosso: mentre tutta la società è invasa
da quello che è stato chiamato un “pansessualismo” pervasivo, capita troppo
spesso che solo nella vita pastorale della Chiesa si abbia difficoltà a parlare
della sessualità, così che i fedeli sono lasciati senza una parola di
orientamento, senza un annuncio, senza un consiglio. C’è come una timidezza che
porta al silenzio o all’equivoco rimando al giudizio della coscienza
individuale. Pesa un complesso di colpa per un passato recente in cui se ne
parlava troppo o forse piuttosto in termini unilateralmente negativi. Ciò
provoca un’autocensura molto diffusa e un ambiguo rimando alla coscienza
individuale. Influisce certamente il peso del puritanesimo, una corrente che
dal XVII al XIX secolo condizionò il cristianesimo europeo e nordamericano, di
matrice protestante, ma con influssi considerevoli anche nel cattolicesimo. Il
suo spirito fondamentale può essere espresso mediante una serie di equazioni
che propongono dapprima un’ identificazione tra Dio e morale, poi tra morale e
proibizioni normative, e finalmente tra queste norme morali proibitive e
repressione sessuale. Così ne risulta quell’identificazione tra religione e
repressione sessuale che ancora domina l’immaginario pubblico e che viene
sfruttata sui mezzi di comunicazione ogni volta che si vuole denigrare la
predicazione della Chiesa e costringerla al silenzio.
E’ della massima urgenza, dunque, superare quest’autocensura e questo
complesso di colpa: lo si può fare solo ritrovando piena consapevolezza della
parola grande e piena di bellezza, che
In questo intervento vorrei ripercorrere il percorso pastorale e dottrinale
del Magistero pontificio in questi 40 anni, sviluppatosi nel serrato confronto
con un ambiente culturale segnato da radicali trasformazioni del costume e
della mentalità. E’ l’itinerario che va dalla profezia di Humanae vitae di papa Paolo VI alla meditazione teologica
sull’agape di Deus caritas est,
passando per la teologia del corpo proposta da Giovanni Paolo II. In tal modo
diventerà chiaro il panorama completo di quella teologia dell’amore, in cui si
inserisce anche l’impegno per educare ad una sessualità veramente matura e ad
una paternità e maternità responsabili.
2. La profezia di Humanae vitae
Il cuore dell’insegnamento di Humanae
vitae, come è stato autorevolmente indicato, va ricercato nel paragrafo 12,
laddove si afferma «la connessione inscindibile (indissolubilis nexus), che Dio ha voluto e che l’uomo non può
rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il
significato unitivo e il significato procreativo»[3].
Come si evince da questa formulazione, ma anche dal contesto del paragrafo, il
fondamento dottrinale della norma etica è colto a livello del valore
personalistico dell’atto coniugale e non del rispetto della semplice
fisiologia: riguarda infatti quel senso di «mutuo e vero amore» e «il suo
ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità», che è stato
iscritto nell’essere stesso dell’uomo e della donna dal Creatore. Tale
principio ha un carattere così «profondamente ragionevole e umano», che il papa
Paolo VI confida sia accessibile agli uomini del nostro tempo.
L’Enciclica montiniana vuol essere dunque una rivendicazione della
dignità personalistica della sessualità coniugale e della procreazione umana,
che possono custodire il loro integro significato di amore solo rispettando
l’intima connessione tra l’unità dei corpi nella carne e l’apertura alla
trasmissione della vita. Infatti quando viene intenzionalmente separata dalla
procreazione, la sessualità umana perde anche il suo significato di integrale dono
di sé e di accoglienza piena dell’altra persona: la contraccezione inocula
nell’atto corporeo della reciproca donazione tra uomo e donna il veleno di una
menzogna, che lo falsifica intimamente, rendendolo un donarsi senza donarsi
totalmente, un accogliere senza veramente ospitare. Si può dire con verità che
un atto contraccettivo non è più un atto coniugale: nella sua struttura
intenzionale obiettiva non differisce da forme di attività sessuale, volte a
raggiungere solo una soddisfazione edonistica individuale e incapaci di
costruire una vera comunione personale.
D’altra parte, una procreazione che non deriva da un atto sessuale
coniugale assume l’aspetto di una attività tecnico-produttiva, regolata dalla
logica dell’efficienza dei mezzi rispetto ai risultati voluti, nella quale
quindi non viene più rispettata la dignità personale del figlio. Quest’ultimo
non è più accolto come un dono che viene da un dono, ma viene piuttosto
programmato e prodotto come un oggetto, su cui si può sempre esercitare il
potere di una verifica della sua corrispondenza rispetto al progetto iniziale.
Si può dunque affermare che la dottrina di Humanae
vitae è una difesa della sessualità come espressione vera di amore sponsale
e personale», ed è nello stesso tempo la difesa della dimensione personalistica
della procreazione umana.
Si colloca qui la differenza etica e antropologica del ricorso
all’astinenza periodica per regolare la natalità con l’aiuto dei metodi
naturali. L’oggetto del giudizio morale non sono i “metodi naturali”, ma quelle
scelte di astinenza (e quegli atti di esercizio) della sessualità, compiute
quando esistano seri motivi, valutati con un discernimento responsabile da
parte dei coniugi, per evitare una nuova gravidanza. L’astinenza dai rapporti
sessuali nel periodo fecondo della donna è un comportamento che non nega la
dinamica unitiva della relazione coniugale: anch’essa esprime la sponsalità, ma
nella forma consentita dalla responsabilità procreativa. E’ un atto di
attuazione personale e corporea dell’amore, anche se non mediante la
congiunzione fisica. Altre possibilità di espressione dell’unione possono e debbono
essere trovate dai coniugi. D’altra parte, l’esercizio della sessualità durante
i periodi infertili della donna non nega il significato procreativo degli atti
sessuali coniugali, che vengono rispettati nella loro dignità e nella loro apertura intenzionale, anche se
non posseggono una funzione biologica procreativa. Sia nel caso dell’astinenza
che in quello dell’esercizio della sessualità, si tratta quindi di atti che
sono pienamente conformi alla virtù della castità coniugale e che esprimono
l’amore sponsale.
E’ interessante notare che l’insegnamento di Humanae vitae si colloca proprio all’alba di quel vasto e complesso
fenomeno culturale che va sotto il nome di “rivoluzione sessuale” e che ha
portato all’odierno clima di erotismo diffuso. La rivoluzione sessuale[4]
è il tentativo programmatico di separare l’esercizio della sessualità dall’istituzione del matrimonio e dalla
prospettiva della paternità e della maternità. La diffusione massiccia della
contraccezione rende possibile la rivendicazione di una sessualità libera da
legami istituzionali o anche solo stabili. Separato dai legami naturali e
tradizionali, all’interno dei quali trovava il suo contesto di significato,
l’esercizio della sessualità viene ad assumere come unico punto di riferimento
e criterio di verifica la “libido”, l’appagamento del desiderio del singolo.
Così, quale ultimo risultato di questa deriva, la sessualità viene
separata anche dalla differenza sessuale tra uomo e donna: neppure il sesso
naturale deve essere un vincolo e un riferimento, dal momento che il “genere”
viene inteso come un costrutto culturale e quindi anche come oggetto di una
scelta individuale. La sessualità “duttile”, libera da qualsiasi legame con la
procreazione, diventa individualistica: nella società democratica si verifica
una spinta verso un’epocale trasformazione dell’intimità[5].
Lungi dal produrre un’autentica liberazione, la rivoluzione sessuale
sembra aver provocato piuttosto un’ossessione sessuale di massa. Si tratta di
una proposta culturale che riduce la sessualità a genitalità e la considera
quindi come un mero oggetto di consumo, il cui godimento da parte
dell’individuo è per se stesso normale e buono. E’ dunque un tentativo di
radicale secolarizzazione della sessualità, che, spogliata da ogni contenuto di
mistero e di trascendenza, perde il suo più intimo anelito: costruire una
comunione di persone e diventa semplicemente occasione di piacere[6].
Ma la ricerca del piacere come fine a se stesso, priva la sessualità della
promessa più segreta che la anima e che la rende così affascinante.
Il carattere profetico di Humanae
vitae consiste precisamente nell’aver colto il punto cruciale di un
fenomeno di trasformazione del costume sociale di portata epocale. Andando
controcorrente rispetto alla mentalità prevalente, l’Enciclica di Paolo VI ha
affermato il principio di una sessualità che sia davvero espressione
dell’amore, come dono personale, integrale, capace di costruire una comunione
autentica e aperto alla vita. Come cercherò di mostrare ora, il successivo
magistero della Chiesa, con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha sviluppato le
potenzialità di questa profezia, documentandole in una sempre più ricca ed
articolata teologia dell’amore.
3. L’analogia dell’amore in Giovanni Paolo
II: la questione antropologica
E’ stato giustamente osservato che Giovanni Paolo II, nel suo
abbondante magistero sul tema, ma particolarmente nel ciclo di Catechesi del
mercoledì dei primi anni del suo pontificato, ha istituito una connessione
intima tra questione matrimoniale e questione antropologica[7].
In altre parole: quando si tratta dell’amore coniugale è in gioco l’uomo e la
verità di una concezione antropologica.
Questa tesi, sviluppata proprio in riferimento ad Humanae vitae, viene fondata mediante l’elaborazione di una vera e
propria “teologia del corpo”, che per la prima volta espone in modo organico la
visione che della corporeità umana scaturisce dalla Rivelazione, interpellata
alla luce delle esperienze umane originarie. Il corpo umano, contrassegnato
dalla differenza sessuale, è “sacramento della persona”: segno visibile della
realtà invisibile che ci costituisce come soggetti unici e irripetibili[8].
Esso, lungi dal ridursi alla dimensione fisiologica colta dalle scienze
empiriche, è permeato della soggettività. E’ nel corpo che l’uomo scopre la sua
irriducibile differenza dagli altri esseri viventi, e sperimenta quindi nel
mondo visibile la sua solitudine originaria e nello stesso tempo la sua chiamata
alla comunione nell’incontro con il corpo persona della donna. Proprio così gli
si rivela infatti la possibilità di un’esperienza singolare di intimità e la
possibilità di una reciprocità unica: il corpo manifesta il suo significato
nuziale.
Per questo i gesti del corpo devono essere intesi come segni di un
linguaggio, che è chiamato ad esprimere e realizzare la comunione di amore
delle persone, in cui natura e persona si intrecciano in maniera indissolubile[9].
Per comprendere il significato del linguaggio del corpo occorre innanzitutto
collocarlo nell’ambito della comunicazione tra soggetti.
Si trovano qui implicati due livelli di significato: uno perenne ed un
altro unico e irripetibile. Il primo riguarda il “senso oggettivo”, di cui il
corpo non è esso stesso autore, quello che è stato «pronunciato dalla parola
del Dio vivo»[10]; il secondo, di carattere
“soggettivo”, è quello di cui l’uomo stesso è autore, mediante la necessaria e
continua “rilettura” della verità originaria. Il papa osserva che in questa
rilettura avviene in realtà l’introduzione di “qualcosa di più”: l’uomo diventa
con Dio “co-autore” nel linguaggio del corpo, assumendo e consentendo ai
significati originari che sono propri della creazione.
Appare così in piena luce il significato positivo della sessualità
umana e la dignità dell’uomo, che è soggetto di amore proprio nell’unità di
anima e di corpo che lo costituisce[11].
In questo senso se il significato del corpo è la chiamata al dono di sé e
all’accoglienza dell’altro, condizione della piena realizzazione di questa
vocazione è l’autopossesso, che si realizza mediante l’acquisizione delle
virtù, in particolare della virtù della castità. Essa va intesa non come la
repressione delle passioni e dell’affettività, ma piuttosto come la virtù dell’amore
vero: la forza interiore che permette alle pulsioni e alle emozioni di
esprimersi nel pieno rispetto della dignità personale dell’altra persona,
realizzando così un’autentica comunione delle persone nell’atto d’amore
coniugale.
Emerge quindi che proprio nel loro limite e nel loro presupporre una
maturazione personale, i cosiddetti “metodi naturali” assumono un indiretto
valore morale. Essi non sostituiscono la persona e le persone dei coniugi nel
loro agire. Non manipolano artificialmente i significati dell’atto coniugale,
ma ne rispettano il valore personalistico. Esigendo ed incoraggiando la
formazione di necessarie disposizioni personali, si pongono al servizio
dell’amore.
In una della sue Catechesi sull’amore umano, Giovanni Paolo II lo aveva
affermato:
La conoscenza stessa dei ‛ritmi della fecondità’ – anche
indispensabile – non crea ancora quella libertà interiore del dono, che è di
natura esplicitamente spirituale e dipende dalla maturazione dell’uomo
interiore. Questa libertà suppone una capacità tale di dirigere le reazioni sessuali
ed emotive, da rendere possibile la donazione di sé all’altro ‛io’ in
base al possesso maturo del proprio ‛io’ nella sua soggettività corporea
ed emotiva.[12]
La novità di un tale linguaggio e di un tale approccio al tema della
sessualità provocò un grande clamore nell’opinione pubblica. Si trattava
infatti di un radicale superamento di quell’equivoco puritano che, come già si
è detto, aveva per secoli imprigionato la morale sessuale cattolica in
un’interpretazione falsa e riduttiva.
Si capisce quindi l’accusa di Nietzsche al cristianesimo, che papa
Benedetto XVI ha evocato nella sua enciclica inaugurale: il cristianesimo
avrebbe dato da bere del veleno all’eros, rendendo così amara la cosa più bella
della vita[13]. Ebbene: le Catechesi di
Giovanni Paolo II spiazzarono i pregiudizi e le accuse e aprirono la via ad una
riscoperta del valore del corpo nel cristianesimo. Come fu osservato: «con
Giovanni Paolo II improvvisamente divenne bello essere cristiani», proprio
perché se ne poteva vedere la convenienza e la corrispondenza con ciò che gli
uomini e le donne di più desiderano nel profondo del loro cuore.
Nello stesso tempo veniva però superato anche l’equivoco
spiritualistico che aveva connotato il personalismo e suggerito impostazioni
divergenti da Humanae vitae[14]. In esso infatti
la valorizzazione della relazione interpersonale di amore, inteso come “fine
primario” dell’atto coniugale, aveva portato ad una riduzione del “fine
procreativo” appiattendolo su una visione biologistica. In realtà, la prospettiva
della teologia del corpo di Giovanni Paolo II, mentre evidenzia chiaramente la
dignità personalistica dell’atto coniugale, sa riconoscere nell’apertura alla
fecondità un significato intrinseco della stessa donazione personale, che non
può essere volontariamente escluso senza minarne l’integro valore. Si rivela
qui l’intima indissolubile unità dei tre fattori che costituiscono quello che è
stato chiamato “mistero nuziale”: la differenza sessuale, l’unità nella carne e
la fecondità[15]. Essi indicano la grammatica
fondamentale dell’amore, a partire dalla quale gli uomini e le donne possono
comporre senza compiere errori il poema unico e originalissimo delle loro
storie di amore, nella vita di coppia e di famiglia.
Il termine “mistero” suggerisce un’apertura ultima dell’esperienza
dell’amore umano. Esso infatti non indica ciò che rimane oscuro e inconoscibile
alla ragione, ma piuttosto quanto si rivela di ciò che in se stesso è oltre le
possibilità di comprensione della ragione: dunque un rivelarsi nella modalità
del segno. In che senso dunque l’esperienza dell’amore umano è mediazione per
un riferimento analogico a Dio, in che modo essa è via per una conoscenza di
Dio Creatore?
Se noi consideriamo l’atto di amore, in esso sempre troviamo il
riferimento di una persona che ama ad un’altra che è amata, e che costituisce
nel suo ordine un punto di riferimento ultimo insuperabile: la persona è amata
per se stessa. E tuttavia il dinamismo dell’amore rivolto alla persona è esso
stesso inglobato in una causalità precedente che lo supera[16].
Si tratta dell’atto di amore originario, che avvolge tutta la creazione e la
connota di una bontà radicale, per cui vale la pena di essere amata. Ciò porta
a riconoscere che l’amore umano è preceduto da un amore creatore originario, che
si manifesta in esso e lo rende possibile.
4.
La via della
carità in Benedetto XVI: la questione teologica
L’insegnamento di papa Benedetto XVI parte proprio da qui per
sviluppare una approfondita teologia dell’amore, alla quale dedica l’enciclica
inaugurale del suo pontificato. L’amore costituisce infatti il centro stesso
dell’annuncio cristiano: «Dio è amore»: non si tratta di un’idea filosofica, ma
dell’adesione di fede ad un evento storico: «Abbiamo creduto all’amore di Dio»
(I Gv 4, 16). Ciò che caratterizza
questa ulteriore tappa del magistero è la sottolineatura della stretta
connessione tra questione dell’amore con la questione teologica.
Il papa segue un’indicazione di Sant’Agostino, mai come oggi attuale.
Il grande padre della Chiesa, quasi proseguendo e commentando il salmo 41 con
la sua inquietante domanda: «Essi dicono a me tutto il giorno: dov’è il tuo
Dio?», offre una via di risposta: «Se vedi la carità vedi la Trinità»[17]. La visibilità del mistero
intimo di Dio uno e trino è resa possibile dalla vita di carità, che si attua
nella Chiesa. Così in un mondo come il nostro in cui si va drammaticamente diffondendo
una cecità spirituale di fronte alla creazione e una cecità intellettuale verso
le altre prove della esistenza di Dio, la questione di un amore autentico,
animato dalla carità infusa per lo Spirito Santo acquista valore di
testimonianza a Dio.
L’azione umana, che ospitando lo Spirito divino origina la carità
vissuta tra gli uomini, rappresenta una testimonianza unica alla gloria di Dio,
una vera epifania della sua gloria tra gli uomini[18].
In particolare il matrimonio e la famiglia cristiana acquistano un permanente
significato sacramentale per il mondo: proprio realizzando un’autentica
comunione delle persone nella carità, sono chiamati a rendere testimonianza
della presenza salvifica di Dio tra gli uomini.
Ciò implica che la trasparenza dell’archetipo è condizione necessaria
per poter accedere alla conoscenza dell’amore originario. L’immagine divina
nell’uomo si attua proprio quando egli, nell’amore, esprime la comunione delle
persone, unite nel dono fecondo di se stesse. L’analogia dell’amore (ανά
λόγος: discorso che sale dal basso) significa la
somiglianza nella sempre più grande dissomiglianza: l’amore umano consente
l’accesso all’amore divino che lo precede e gli si offre come luce e forza per
attuarsi secondo verità.
Nello stesso tempo è la catalogia
(κατά λόγος: discorso che scende
dall’alto) della rivelazione dell’amore trinitario in Cristo che svela all’uomo
l’ultimo significato dello stesso amore umano: nella simbolica dell’amore di
Cristo Sposo per
Si stringe così ulteriormente nell’interiore unità dell’evento
cristiano, la pericoresi tra atto di fede nella rivelazione divina e pratica
dell’amore, anche e specificamente dell’amore coniugale nella sua verità.
L’amore umano tra uomo e donna ha una sua verità, un suo linguaggio, una sua
grammatica, che è fondata ultimamente sul progetto originario di Dio, istituito
nella creazione e definitivamente rivelato in Gesù Cristo. Il rispetto dell’inscindibile
unità tra significato unitivo e significato procreativo dell’atto coniugale fa
parte della grammatica dell’amore, cioè di quel sistema di regole che
permettono la comunicazione autentica tra le persone. «Temo che finché
crederemo nella grammatica, noi continueremo a credere in Dio» aveva affermato
Friedrich Nietzsche[22]. La verità è l’ineludibile
contesto che abbraccia intenzionalmente tutti i nostri discorsi, anche quelli
che cercano di negarla ed essa è ultimamente fondata su Dio. Anche la grammatica
dell’amore ha la sua scaturigine nel Dio creatore e redentore: negarla
significa oscurare il suo volto.
Conclusione
«Il cristianesimo non è opera di persuasione, ma di grandezza»[23]. Con questa bella citazione
di Sant’Ignazio di Antiochia, il papa Benedetto XVI indicava davanti ai vescovi
svizzeri il punto chiave in cui risiede per lui la sfida formidabile della
nuova evangelizzazione. La difficoltà maggiore, in cui ci imbattiamo nell’opera
educativa, non è tanto di non farsi capire, quanto piuttosto quella di perdere
la grandezza iniziale che il cristianesimo propose con stupore. Allora esso può
apparire solo come una serie fastidiosa di regole e non come la vocazione a
realizzare un poema d’amore.
Che cosa è ultimamente in gioco con Humanae
vitae? Era questa la domanda da cui siamo partiti. Il rapido percorso nello
sviluppo del pensiero teologico legato al magistero di Giovanni Paolo II e di
Benedetto XVI ha mostrato che non è in gioco una semplice norma di morale
sessuale, che potrebbe essere praticamente elusa o facilmente mutata nel
futuro. E’ risultato evidente che alla questione della sessualità matrimoniale
sono legate la questione antropologica e quella teologica, proprio perché tutte
queste tematiche sono legate all’amore. Ancora una volta si è manifesta
l’interiore organica unità della verità cattolica, nella quale il tutto è
sempre implicato nel frammento, da cui trae significato e a cui contribuisce
essenzialmente. Per questo non è mai possibile separare la verità su Dio da
quella sull’uomo, la fede da credere dalla prassi da attuare nella vita
quotidiana.
La rottura dell’intimo nesso tra sessualità e apertura alla
procreazione è l’espressione di un processo di radicale secolarizzazione
dell’amore umano, che viene progressivamente ricondotto alla dimensione
utilitaristica e individualistica di una ricerca del piacere per se stesso. Una
ricerca che, così impostata sperimenta sempre più una frustrazione del
desiderio e perfino un impoverimento del piacere. La difesa dell’amore come
“mistero” è dunque nello stesso tempo una difesa di Dio e una difesa dell’uomo.
Ultimamente è anche una difesa del desiderio e perfino del piacere.
Per questo la predicazione integrale della verità sull’amore umano
insegnato da Humanae vitae è parte
integrale dell’evangelizzazione e dell’impegno per costruire un’autentica
civiltà dell’amore e una cultura della famiglia[24].
[1] Cf. A. Oliveiro, “Le nostre emozioni alla ricerca di un alfabeto”, in Avvenire, 1 marzo 2001.
[2] Cf. L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, 15-21.
[3] Tra i molti commenti teologici che lo affermano, particolarmente autorevole, in quanto proveniente dal consigliere teologico personale di Paolo VI, che ebbe un ruolo importante nella preparazione del documento, è quello di C. Colombo, L’insegnamento fondamentale di Humanae vitae, Milano 1989, 411-412.
[4] Il punto di riferimento ideologico è l’opera di W. Reich, La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano 1963 (orig. tedesco: 1936); per una descrizione del fenomeno si veda. F. Giardini, La rivoluzione sessuale, Edizioni Paoline, Roma 1974.
[5] Cf. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, il Mulino, Bologna 2005 (orig. inglese: 1992).
[6] Cf.
[7] L’affermazione è di C. Caffarra, Prefazione,
a Giovanni Paolo II, Familia via
Ecclesiae. Il Magistero di Papa Wojtyla sul matrimonio e la famiglia, a
cura di G. Grandis, Cantagalli, Siena 2006, 7-16. Le Catechesi del mercoledì
sono raccolte in: Giovanni Paolo II, Uomo
e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova – Libreria
Editrice Vaticana, Roma 1985. Va segnalata per il rigore critico e per
l’introduzione la recente edizione inglese: Man
and Woman He Created Them. A Theology of the Body. Translation, Introduction, and
Index by Michael Waldstein, Pauline, Boston 2006.
[8] Giovanni Paolo II, Uomo e donna,
cit., XIX, p. 90; LXXXVII, p. 345; al riguardo: J. Merecki, “Il corpo,
sacramento della persona”, in
[9] Giovanni Paolo II, Uomo e donna, cit., CIII, pp. 397-399.
[10] Ibidem, CIV e CV, pp. 400-405.
[11] Cf. G. Marengo, “Legge naturale, corpo e libertà”, in
[12] Giovanni Paolo II, Uomo e donna, cit., CXXX, 488.
[13] Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 3.
[14] Cf. G. Mazzocato, “Il dibattito tra Doms e neotomisti sull’indirizzo personalista”, in Teologia 31 (2006), 249-275.
[15] Cf. A. Scola, Il mistero nuziale. 1. Uomo-Donna, Pul-Mursia, Roma 1998; 2. Matrimonio-Famiglia, Pul-Mursia, Roma 2000.
[16] Cf.
[17] Sant’Agostino, De Trinitate, VIII, 8, 12.14. Si veda: J. Granados: «“Vides Trinitatem, si caritatem vides”: via del amor y Espiritu Santo en el “De Trinitate” de San Augustin», in Revista Augustiniana 43/130 (2002), 23-62.
[18] Mi permetto di rimandare al mio volume:
[19] Benedetto XVI, Deus caritas est,
11.
[20] Ibidem.
[21] A. Scola, “Il mistero nuziale. Originarietà e fecondità”, in Anthropotes XXIII/2 (2007), 57-70. Per una trattazione più sistematica, dello stesso autore si veda oltre ai due volumi dell’opera già citata: Il mistero nuziale: una prospettiva di teologia sistematica, Lateran University Press, Roma 2003.
[22] Citato in L. Irigaray, Éthique
de la différence, Le Minuti, Paris 1984, 109 ; la nota affermazione nietzschiana
si trova in Die "Vernunft" in der Philosophie, 5. Nello stesso senso anche Jacques
Derrida aveva affermato che l’epoca dei significati è essenzialmente teologica
e presuppone Dio (De la grammatologie,
Minuit, Paris 1967, 41).
[23] Sant’Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, III, 3, citata da Benedetto XVI, Discorso conclusivo all’incontro con i vescovi svizzeri, 9 novembre 2006.
[24] Al riguardo: C. Anderson, A Civilization of Love. What Every Catholic
Can Do to Transform the World,
Harper One, New York 2008;