Varsavia, 5-6 settembre 2009

 

La profezia di Humanae vitae

e la verità dell’amore sponsale

per una procreazione responsabile

 

Livio Melina

 

A distanza di più di 40 anni dalla sua pubblicazione risulta in piena luce il carattere profetico dell’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, che ancora oggi è nella Chiesa e nell’opinione pubblica “segno di contraddizione”. Per coglierne la portata storica e l’attualità dobbiamo chiederci che cosa veramente sia in gioco nel suo insegnamento. Nel momento in cui fu pubblicata, la maggior parte dei commentatori pensò che si trattasse solo di una questione di morale coniugale, molto delicata per la vita di tanti sposi cristiani, oppure anche di un problema di morale sociale legato al controllo della natalità di fronte al fantasma di una sovrappopolazione. Si avvertiva peraltro che alla tematica dell’Enciclica montiniana era sottesa una questione ecclesiologica relativa all’interpretazione di quell’ “aggiornamento” con cui veniva identificato il significato epocale del Concilio Vaticano II appena celebrato: era finalmente possibile rompere con una tradizione normativa, che - secondo alcuni - sembrava riflettere una millenaria sottovalutazione della sessualità in ambito cristiano? Dirò subito la mia tesi: Humanae vitae si è rivelata profezia di quella verità dell’amore, che è così essenziale per la vita degli uomini e delle donne. 

 

 

1.      Analfabetismo affettivo, pansessualismo ed emergenza educativa

 

Quando parliamo di profezia siamo abituati a pensare spontaneamente soprattutto ad una capacità di previsione del futuro: ora questo è solo un aspetto di ciò che costituisce la profezia nella Sacra Scrittura. Profeta è colui che, parlando a nome di Dio, in primo luogo dà un giudizio sulla situazione che si sta vivendo e che invitando alla conversione, proprio per questo apre la strada al futuro. Prima di entrare nel merito di Humanae vitae vorrei descrivere rapidamente qualche tratto della situazione che viviamo e vorrei farlo alla luce della preoccupazione anche recentemente espressa da Benedetto XVI: l’“emergenza educativa”. Strategicamente cruciale per la questione antropologica mostra di essere l’educazione all’amore, soprattutto in riferimento a quello che si può definire l’apprendimento della sua grammatica e della sua sintassi.

 

E infatti è stato segnalato il fenomeno di un crescente “analfabetismo affettivo” diffuso nelle nuove generazioni[1]. Un’inchiesta recente svolta in ben 90 scuole nell’area di Southampton, in Inghilterra, tra una popolazione di studenti che appartengono al ceto medio-basso, in cui il 40% dei casi vive in famiglie composte da un solo genitore, ha mostrato che questi ragazzini conoscono al massimo una decina di parole relative alle emozioni e all’affettività: sono parole scarsamente differenziate, generalmente volgari, che non consentono sottigliezze quando si tratta di definire il proprio stato d’animo o di comprendere quello altrui. Il fenomeno è allarmante: l’incapacità di rientrare in contatto con il mondo delle proprie emozioni implica un’incapacità di comunicare e stabilire relazioni adeguate con gli altri.

 

Potremmo dire che questo nuovo tipo di analfabetismo, rilevato da sociologi e psicologi, significa un’incapacità di leggere e di scrivere. Incapacità di leggere le proprie emozioni e i propri sentimenti, che fa sì che essi siano rimossi oppure che esplodano incontrollatamente; incapacità di interpretare il proprio mondo interiore e di dargli un senso all’interno di un quadro complessivo di significato. Incapacità di scrivere nella trama della propria esistenza e della storia ciò che si sente nel proprio intimo, che rimane dunque inespresso o male espresso, incomprensibile e irrealizzabile. La solitudine del contesto vitale, la mancanza di punti autorevoli di riferimento, di maestri, di storie narrate, di comunità vissute impedisce l’interpretazione delle emozioni e degli affetti, il riconoscimento di un senso che li qualifichi e li orienti. Senza vocabolario, senza grammatica, senza maestri non si impara a leggere e a scrivere. E’ questo il problema decisivo per la formazione della persona: la necessità di un quadro di riferimento interpretativo del vissuto emotivo e affettivo, che possa costituire un contesto di senso capace di integrare l’esperienza, di renderla comprensibile e costruttiva.

 

Per comprendere le dimensioni della sfida odierna, occorre considerare che non ci troviamo di fronte solo ad un’assenza di educazione, ma anche ad una strategia eversiva che tende a modificare la cultura attraverso una manipolazione del linguaggio. L’emergenza educativa consisterà nell’aiutare i giovani a ritrovare i significati costitutivi del linguaggio del corpo e dell’amore, mostrando la loro corrispondenza al “cuore” dell’uomo, cioè a quell’insieme di evidenze ed esigenze originarie, che costituiscono l’esperienza elementare[2]. Solo così si può evitare la deformazione delle coscienze e la crescita di una vera libertà personale.

 

Si assiste oggi, d’altra parte, ad un paradosso: mentre tutta la società è invasa da quello che è stato chiamato un “pansessualismo” pervasivo, capita troppo spesso che solo nella vita pastorale della Chiesa si abbia difficoltà a parlare della sessualità, così che i fedeli sono lasciati senza una parola di orientamento, senza un annuncio, senza un consiglio. C’è come una timidezza che porta al silenzio o all’equivoco rimando al giudizio della coscienza individuale. Pesa un complesso di colpa per un passato recente in cui se ne parlava troppo o forse piuttosto in termini unilateralmente negativi. Ciò provoca un’autocensura molto diffusa e un ambiguo rimando alla coscienza individuale. Influisce certamente il peso del puritanesimo, una corrente che dal XVII al XIX secolo condizionò il cristianesimo europeo e nordamericano, di matrice protestante, ma con influssi considerevoli anche nel cattolicesimo. Il suo spirito fondamentale può essere espresso mediante una serie di equazioni che propongono dapprima un’ identificazione tra Dio e morale, poi tra morale e proibizioni normative, e finalmente tra queste norme morali proibitive e repressione sessuale. Così ne risulta quell’identificazione tra religione e repressione sessuale che ancora domina l’immaginario pubblico e che viene sfruttata sui mezzi di comunicazione ogni volta che si vuole denigrare la predicazione della Chiesa e costringerla al silenzio.

 

E’ della massima urgenza, dunque, superare quest’autocensura e questo complesso di colpa: lo si può fare solo ritrovando piena consapevolezza della parola grande e piena di bellezza, che la Chiesa riceve dalla Rivelazione sull’amore umano e sulla sessualità. Humanae vitae è stata profezia proprio perché ha anticipato un giudizio chiaro su questa situazione, e testimonianza una verità sull’amore umano, ha aperto la strada al futuro.

 

In questo intervento vorrei ripercorrere il percorso pastorale e dottrinale del Magistero pontificio in questi 40 anni, sviluppatosi nel serrato confronto con un ambiente culturale segnato da radicali trasformazioni del costume e della mentalità. E’ l’itinerario che va dalla profezia di Humanae vitae di papa Paolo VI alla meditazione teologica sull’agape di Deus caritas est, passando per la teologia del corpo proposta da Giovanni Paolo II. In tal modo diventerà chiaro il panorama completo di quella teologia dell’amore, in cui si inserisce anche l’impegno per educare ad una sessualità veramente matura e ad una paternità e maternità responsabili.

 

 

2.      La profezia di Humanae vitae

 

Il cuore dell’insegnamento di Humanae vitae, come è stato autorevolmente indicato, va ricercato nel paragrafo 12, laddove si afferma «la connessione inscindibile (indissolubilis nexus), che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo»[3]. Come si evince da questa formulazione, ma anche dal contesto del paragrafo, il fondamento dottrinale della norma etica è colto a livello del valore personalistico dell’atto coniugale e non del rispetto della semplice fisiologia: riguarda infatti quel senso di «mutuo e vero amore» e «il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo alla paternità», che è stato iscritto nell’essere stesso dell’uomo e della donna dal Creatore. Tale principio ha un carattere così «profondamente ragionevole e umano», che il papa Paolo VI confida sia accessibile agli uomini del nostro tempo.

 

L’Enciclica montiniana vuol essere dunque una rivendicazione della dignità personalistica della sessualità coniugale e della procreazione umana, che possono custodire il loro integro significato di amore solo rispettando l’intima connessione tra l’unità dei corpi nella carne e l’apertura alla trasmissione della vita. Infatti quando viene intenzionalmente separata dalla procreazione, la sessualità umana perde anche il suo significato di integrale dono di sé e di accoglienza piena dell’altra persona: la contraccezione inocula nell’atto corporeo della reciproca donazione tra uomo e donna il veleno di una menzogna, che lo falsifica intimamente, rendendolo un donarsi senza donarsi totalmente, un accogliere senza veramente ospitare. Si può dire con verità che un atto contraccettivo non è più un atto coniugale: nella sua struttura intenzionale obiettiva non differisce da forme di attività sessuale, volte a raggiungere solo una soddisfazione edonistica individuale e incapaci di costruire una vera comunione personale.

 

D’altra parte, una procreazione che non deriva da un atto sessuale coniugale assume l’aspetto di una attività tecnico-produttiva, regolata dalla logica dell’efficienza dei mezzi rispetto ai risultati voluti, nella quale quindi non viene più rispettata la dignità personale del figlio. Quest’ultimo non è più accolto come un dono che viene da un dono, ma viene piuttosto programmato e prodotto come un oggetto, su cui si può sempre esercitare il potere di una verifica della sua corrispondenza rispetto al progetto iniziale. Si può dunque affermare che la dottrina di Humanae vitae è una difesa della sessualità come espressione vera di amore sponsale e personale», ed è nello stesso tempo la difesa della dimensione personalistica della procreazione umana.

 

Si colloca qui la differenza etica e antropologica del ricorso all’astinenza periodica per regolare la natalità con l’aiuto dei metodi naturali. L’oggetto del giudizio morale non sono i “metodi naturali”, ma quelle scelte di astinenza (e quegli atti di esercizio) della sessualità, compiute quando esistano seri motivi, valutati con un discernimento responsabile da parte dei coniugi, per evitare una nuova gravidanza. L’astinenza dai rapporti sessuali nel periodo fecondo della donna è un comportamento che non nega la dinamica unitiva della relazione coniugale: anch’essa esprime la sponsalità, ma nella forma consentita dalla responsabilità procreativa. E’ un atto di attuazione personale e corporea dell’amore, anche se non mediante la congiunzione fisica. Altre possibilità di espressione dell’unione possono e debbono essere trovate dai coniugi. D’altra parte, l’esercizio della sessualità durante i periodi infertili della donna non nega il significato procreativo degli atti sessuali coniugali, che vengono rispettati nella loro dignità  e nella loro apertura intenzionale, anche se non posseggono una funzione biologica procreativa. Sia nel caso dell’astinenza che in quello dell’esercizio della sessualità, si tratta quindi di atti che sono pienamente conformi alla virtù della castità coniugale e che esprimono l’amore sponsale.

 

E’ interessante notare che l’insegnamento di Humanae vitae si colloca proprio all’alba di quel vasto e complesso fenomeno culturale che va sotto il nome di “rivoluzione sessuale” e che ha portato all’odierno clima di erotismo diffuso. La rivoluzione sessuale[4] è il tentativo programmatico di separare l’esercizio della sessualità  dall’istituzione del matrimonio e dalla prospettiva della paternità e della maternità. La diffusione massiccia della contraccezione rende possibile la rivendicazione di una sessualità libera da legami istituzionali o anche solo stabili. Separato dai legami naturali e tradizionali, all’interno dei quali trovava il suo contesto di significato, l’esercizio della sessualità viene ad assumere come unico punto di riferimento e criterio di verifica la “libido”, l’appagamento del desiderio del singolo.

 

Così, quale ultimo risultato di questa deriva, la sessualità viene separata anche dalla differenza sessuale tra uomo e donna: neppure il sesso naturale deve essere un vincolo e un riferimento, dal momento che il “genere” viene inteso come un costrutto culturale e quindi anche come oggetto di una scelta individuale. La sessualità “duttile”, libera da qualsiasi legame con la procreazione, diventa individualistica: nella società democratica si verifica una spinta verso un’epocale trasformazione dell’intimità[5].

 

Lungi dal produrre un’autentica liberazione, la rivoluzione sessuale sembra aver provocato piuttosto un’ossessione sessuale di massa. Si tratta di una proposta culturale che riduce la sessualità a genitalità e la considera quindi come un mero oggetto di consumo, il cui godimento da parte dell’individuo è per se stesso normale e buono. E’ dunque un tentativo di radicale secolarizzazione della sessualità, che, spogliata da ogni contenuto di mistero e di trascendenza, perde il suo più intimo anelito: costruire una comunione di persone e diventa semplicemente occasione di piacere[6]. Ma la ricerca del piacere come fine a se stesso, priva la sessualità della promessa più segreta che la anima e che la rende così affascinante.

 

Il carattere profetico di Humanae vitae consiste precisamente nell’aver colto il punto cruciale di un fenomeno di trasformazione del costume sociale di portata epocale. Andando controcorrente rispetto alla mentalità prevalente, l’Enciclica di Paolo VI ha affermato il principio di una sessualità che sia davvero espressione dell’amore, come dono personale, integrale, capace di costruire una comunione autentica e aperto alla vita. Come cercherò di mostrare ora, il successivo magistero della Chiesa, con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha sviluppato le potenzialità di questa profezia, documentandole in una sempre più ricca ed articolata teologia dell’amore.

 

 

3.      L’analogia dell’amore in Giovanni Paolo II: la questione antropologica

 

E’ stato giustamente osservato che Giovanni Paolo II, nel suo abbondante magistero sul tema, ma particolarmente nel ciclo di Catechesi del mercoledì dei primi anni del suo pontificato, ha istituito una connessione intima tra questione matrimoniale e questione antropologica[7]. In altre parole: quando si tratta dell’amore coniugale è in gioco l’uomo e la verità di una concezione antropologica.

 

Questa tesi, sviluppata proprio in riferimento ad Humanae vitae, viene fondata mediante l’elaborazione di una vera e propria “teologia del corpo”, che per la prima volta espone in modo organico la visione che della corporeità umana scaturisce dalla Rivelazione, interpellata alla luce delle esperienze umane originarie. Il corpo umano, contrassegnato dalla differenza sessuale, è “sacramento della persona”: segno visibile della realtà invisibile che ci costituisce come soggetti unici e irripetibili[8]. Esso, lungi dal ridursi alla dimensione fisiologica colta dalle scienze empiriche, è permeato della soggettività. E’ nel corpo che l’uomo scopre la sua irriducibile differenza dagli altri esseri viventi, e sperimenta quindi nel mondo visibile la sua solitudine originaria e nello stesso tempo la sua chiamata alla comunione nell’incontro con il corpo persona della donna. Proprio così gli si rivela infatti la possibilità di un’esperienza singolare di intimità e la possibilità di una reciprocità unica: il corpo manifesta il suo significato nuziale.

 

Per questo i gesti del corpo devono essere intesi come segni di un linguaggio, che è chiamato ad esprimere e realizzare la comunione di amore delle persone, in cui natura e persona si intrecciano in maniera indissolubile[9]. Per comprendere il significato del linguaggio del corpo occorre innanzitutto collocarlo nell’ambito della comunicazione tra soggetti.

 

Si trovano qui implicati due livelli di significato: uno perenne ed un altro unico e irripetibile. Il primo riguarda il “senso oggettivo”, di cui il corpo non è esso stesso autore, quello che è stato «pronunciato dalla parola del Dio vivo»[10]; il secondo, di carattere “soggettivo”, è quello di cui l’uomo stesso è autore, mediante la necessaria e continua “rilettura” della verità originaria. Il papa osserva che in questa rilettura avviene in realtà l’introduzione di “qualcosa di più”: l’uomo diventa con Dio “co-autore” nel linguaggio del corpo, assumendo e consentendo ai significati originari che sono propri della creazione.

 

Appare così in piena luce il significato positivo della sessualità umana e la dignità dell’uomo, che è soggetto di amore proprio nell’unità di anima e di corpo che lo costituisce[11]. In questo senso se il significato del corpo è la chiamata al dono di sé e all’accoglienza dell’altro, condizione della piena realizzazione di questa vocazione è l’autopossesso, che si realizza mediante l’acquisizione delle virtù, in particolare della virtù della castità. Essa va intesa non come la repressione delle passioni e dell’affettività, ma piuttosto come la virtù dell’amore vero: la forza interiore che permette alle pulsioni e alle emozioni di esprimersi nel pieno rispetto della dignità personale dell’altra persona, realizzando così un’autentica comunione delle persone nell’atto d’amore coniugale.

 

Emerge quindi che proprio nel loro limite e nel loro presupporre una maturazione personale, i cosiddetti “metodi naturali” assumono un indiretto valore morale. Essi non sostituiscono la persona e le persone dei coniugi nel loro agire. Non manipolano artificialmente i significati dell’atto coniugale, ma ne rispettano il valore personalistico. Esigendo ed incoraggiando la formazione di necessarie disposizioni personali, si pongono al servizio dell’amore.

In una della sue Catechesi sull’amore umano, Giovanni Paolo II lo aveva affermato:

La conoscenza stessa dei ‛ritmi della fecondità’ – anche indispensabile – non crea ancora quella libertà interiore del dono, che è di natura esplicitamente spirituale e dipende dalla maturazione dell’uomo interiore. Questa libertà suppone una capacità tale di dirigere le reazioni sessuali ed emotive, da rendere possibile la donazione di sé all’altro ‛io’ in base al possesso maturo del proprio ‛io’ nella sua soggettività corporea ed emotiva.[12]

 

La novità di un tale linguaggio e di un tale approccio al tema della sessualità provocò un grande clamore nell’opinione pubblica. Si trattava infatti di un radicale superamento di quell’equivoco puritano che, come già si è detto, aveva per secoli imprigionato la morale sessuale cattolica in un’interpretazione falsa e riduttiva.

 

Si capisce quindi l’accusa di Nietzsche al cristianesimo, che papa Benedetto XVI ha evocato nella sua enciclica inaugurale: il cristianesimo avrebbe dato da bere del veleno all’eros, rendendo così amara la cosa più bella della vita[13]. Ebbene: le Catechesi di Giovanni Paolo II spiazzarono i pregiudizi e le accuse e aprirono la via ad una riscoperta del valore del corpo nel cristianesimo. Come fu osservato: «con Giovanni Paolo II improvvisamente divenne bello essere cristiani», proprio perché se ne poteva vedere la convenienza e la corrispondenza con ciò che gli uomini e le donne di più desiderano nel profondo del loro cuore.

 

Nello stesso tempo veniva però superato anche l’equivoco spiritualistico che aveva connotato il personalismo e suggerito impostazioni divergenti da Humanae vitae[14]. In esso infatti la valorizzazione della relazione interpersonale di amore, inteso come “fine primario” dell’atto coniugale, aveva portato ad una riduzione del “fine procreativo” appiattendolo su una visione biologistica. In realtà, la prospettiva della teologia del corpo di Giovanni Paolo II, mentre evidenzia chiaramente la dignità personalistica dell’atto coniugale, sa riconoscere nell’apertura alla fecondità un significato intrinseco della stessa donazione personale, che non può essere volontariamente escluso senza minarne l’integro valore. Si rivela qui l’intima indissolubile unità dei tre fattori che costituiscono quello che è stato chiamato “mistero nuziale”: la differenza sessuale, l’unità nella carne e la fecondità[15]. Essi indicano la grammatica fondamentale dell’amore, a partire dalla quale gli uomini e le donne possono comporre senza compiere errori il poema unico e originalissimo delle loro storie di amore, nella vita di coppia e di famiglia.

 

Il termine “mistero” suggerisce un’apertura ultima dell’esperienza dell’amore umano. Esso infatti non indica ciò che rimane oscuro e inconoscibile alla ragione, ma piuttosto quanto si rivela di ciò che in se stesso è oltre le possibilità di comprensione della ragione: dunque un rivelarsi nella modalità del segno. In che senso dunque l’esperienza dell’amore umano è mediazione per un riferimento analogico a Dio, in che modo essa è via per una conoscenza di Dio Creatore?

 

Se noi consideriamo l’atto di amore, in esso sempre troviamo il riferimento di una persona che ama ad un’altra che è amata, e che costituisce nel suo ordine un punto di riferimento ultimo insuperabile: la persona è amata per se stessa. E tuttavia il dinamismo dell’amore rivolto alla persona è esso stesso inglobato in una causalità precedente che lo supera[16]. Si tratta dell’atto di amore originario, che avvolge tutta la creazione e la connota di una bontà radicale, per cui vale la pena di essere amata. Ciò porta a riconoscere che l’amore umano è preceduto da un amore creatore originario, che si manifesta in esso e lo rende possibile.

 

 

4.                La via della carità in Benedetto XVI: la questione teologica

 

L’insegnamento di papa Benedetto XVI parte proprio da qui per sviluppare una approfondita teologia dell’amore, alla quale dedica l’enciclica inaugurale del suo pontificato. L’amore costituisce infatti il centro stesso dell’annuncio cristiano: «Dio è amore»: non si tratta di un’idea filosofica, ma dell’adesione di fede ad un evento storico: «Abbiamo creduto all’amore di Dio» (I Gv 4, 16).  Ciò che caratterizza questa ulteriore tappa del magistero è la sottolineatura della stretta connessione tra questione dell’amore con la questione teologica.

 

Il papa segue un’indicazione di Sant’Agostino, mai come oggi attuale. Il grande padre della Chiesa, quasi proseguendo e commentando il salmo 41 con la sua inquietante domanda: «Essi dicono a me tutto il giorno: dov’è il tuo Dio?», offre una via di risposta: «Se vedi la carità vedi la Trinità»[17]. La visibilità del mistero intimo di Dio uno e trino è resa possibile dalla vita di carità, che si attua nella Chiesa. Così in un mondo come il nostro in cui si va drammaticamente diffondendo una cecità spirituale di fronte alla creazione e una cecità intellettuale verso le altre prove della esistenza di Dio, la questione di un amore autentico, animato dalla carità infusa per lo Spirito Santo acquista valore di testimonianza a Dio.

 

L’azione umana, che ospitando lo Spirito divino origina la carità vissuta tra gli uomini, rappresenta una testimonianza unica alla gloria di Dio, una vera epifania della sua gloria tra gli uomini[18]. In particolare il matrimonio e la famiglia cristiana acquistano un permanente significato sacramentale per il mondo: proprio realizzando un’autentica comunione delle persone nella carità, sono chiamati a rendere testimonianza della presenza salvifica di Dio tra gli uomini.

 

Ciò implica che la trasparenza dell’archetipo è condizione necessaria per poter accedere alla conoscenza dell’amore originario. L’immagine divina nell’uomo si attua proprio quando egli, nell’amore, esprime la comunione delle persone, unite nel dono fecondo di se stesse. L’analogia dell’amore (ανά λόγος: discorso che sale dal basso) significa la somiglianza nella sempre più grande dissomiglianza: l’amore umano consente l’accesso all’amore divino che lo precede e gli si offre come luce e forza per attuarsi secondo verità.

 

Nello stesso tempo è la catalogia (κατά λόγος: discorso che scende dall’alto) della rivelazione dell’amore trinitario in Cristo che svela all’uomo l’ultimo significato dello stesso amore umano: nella simbolica dell’amore di Cristo Sposo per la Chiesa sua Sposa si rende manifesto il valore dell’amore coniugale come sacramento. Ritroviamo qui una seconda affermazione chiave dell’enciclica di papa Ratzinger: «All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico»[19]. La rivelazione di Dio nella storia di Israele, che culmina in Gesù Cristo, Figlio di Dio, manifesta la dimensione definitiva dell’amore e nello stesso tempo apre la possibilità all’uomo di realizzare il disegno originario di Dio. «Il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano»[20]. La verità antropologica dell’amore coniugale, che nella sua struttura originaria è costituita dalla triplice dimensione di differenza sessuale, dono di sé e procreazione, è icona creata dell’amore divino trinitario[21].

 

Si stringe così ulteriormente nell’interiore unità dell’evento cristiano, la pericoresi tra atto di fede nella rivelazione divina e pratica dell’amore, anche e specificamente dell’amore coniugale nella sua verità. L’amore umano tra uomo e donna ha una sua verità, un suo linguaggio, una sua grammatica, che è fondata ultimamente sul progetto originario di Dio, istituito nella creazione e definitivamente rivelato in Gesù Cristo. Il rispetto dell’inscindibile unità tra significato unitivo e significato procreativo dell’atto coniugale fa parte della grammatica dell’amore, cioè di quel sistema di regole che permettono la comunicazione autentica tra le persone. «Temo che finché crederemo nella grammatica, noi continueremo a credere in Dio» aveva affermato Friedrich Nietzsche[22]. La verità è l’ineludibile contesto che abbraccia intenzionalmente tutti i nostri discorsi, anche quelli che cercano di negarla ed essa è ultimamente fondata su Dio. Anche la grammatica dell’amore ha la sua scaturigine nel Dio creatore e redentore: negarla significa oscurare il suo volto.

 

Conclusione

 

«Il cristianesimo non è opera di persuasione, ma di grandezza»[23]. Con questa bella citazione di Sant’Ignazio di Antiochia, il papa Benedetto XVI indicava davanti ai vescovi svizzeri il punto chiave in cui risiede per lui la sfida formidabile della nuova evangelizzazione. La difficoltà maggiore, in cui ci imbattiamo nell’opera educativa, non è tanto di non farsi capire, quanto piuttosto quella di perdere la grandezza iniziale che il cristianesimo propose con stupore. Allora esso può apparire solo come una serie fastidiosa di regole e non come la vocazione a realizzare un poema d’amore.

 

Che cosa è ultimamente in gioco con Humanae vitae? Era questa la domanda da cui siamo partiti. Il rapido percorso nello sviluppo del pensiero teologico legato al magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ha mostrato che non è in gioco una semplice norma di morale sessuale, che potrebbe essere praticamente elusa o facilmente mutata nel futuro. E’ risultato evidente che alla questione della sessualità matrimoniale sono legate la questione antropologica e quella teologica, proprio perché tutte queste tematiche sono legate all’amore. Ancora una volta si è manifesta l’interiore organica unità della verità cattolica, nella quale il tutto è sempre implicato nel frammento, da cui trae significato e a cui contribuisce essenzialmente. Per questo non è mai possibile separare la verità su Dio da quella sull’uomo, la fede da credere dalla prassi da attuare nella vita quotidiana.

 

La rottura dell’intimo nesso tra sessualità e apertura alla procreazione è l’espressione di un processo di radicale secolarizzazione dell’amore umano, che viene progressivamente ricondotto alla dimensione utilitaristica e individualistica di una ricerca del piacere per se stesso. Una ricerca che, così impostata sperimenta sempre più una frustrazione del desiderio e perfino un impoverimento del piacere. La difesa dell’amore come “mistero” è dunque nello stesso tempo una difesa di Dio e una difesa dell’uomo. Ultimamente è anche una difesa del desiderio e perfino del piacere.

 

Per questo la predicazione integrale della verità sull’amore umano insegnato da Humanae vitae è parte integrale dell’evangelizzazione e dell’impegno per costruire un’autentica civiltà dell’amore e una cultura della famiglia[24]. La Chiesa, quando insegna queste verità, non lo fa perché ossessionata dalle tematiche sessuali, e se va controcorrente non è per reprimere, ma piuttosto per collaborare alla gioia autentica degli uomini e delle donne, indicando loro la via dell’amore.

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cf. A. Oliveiro, “Le nostre emozioni alla ricerca di un alfabeto”, in Avvenire, 1 marzo 2001.

[2] Cf. L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, 15-21.

[3] Tra i molti commenti teologici che lo affermano, particolarmente autorevole, in quanto proveniente dal consigliere teologico personale di Paolo VI, che ebbe un ruolo importante nella preparazione del documento, è quello di C. Colombo, L’insegnamento fondamentale di Humanae vitae,  Milano 1989, 411-412.

[4] Il punto di riferimento ideologico è l’opera di W. Reich, La rivoluzione sessuale,  Feltrinelli, Milano 1963 (orig. tedesco: 1936); per una descrizione del fenomeno si veda. F. Giardini, La rivoluzione sessuale, Edizioni Paoline, Roma 1974.

[5] Cf.  A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, il Mulino, Bologna 2005 (orig. inglese: 1992).

[6] Cf. J. Noriega, Il destino dell’eros. Prospettive di morale sessuale, EDB, Bologna 2006.

[7] L’affermazione è di C. Caffarra, Prefazione, a Giovanni Paolo II, Familia via Ecclesiae. Il Magistero di Papa Wojtyla sul matrimonio e la famiglia, a cura di G. Grandis, Cantagalli, Siena 2006, 7-16. Le Catechesi del mercoledì sono raccolte in: Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova – Libreria Editrice Vaticana, Roma 1985. Va segnalata per il rigore critico e per l’introduzione la recente edizione inglese: Man and Woman He Created Them. A Theology of the Body. Translation, Introduction, and Index by Michael Waldstein, Pauline, Boston 2006.

[8] Giovanni Paolo II, Uomo e donna, cit., XIX, p. 90; LXXXVII, p. 345; al riguardo: J. Merecki, “Il corpo, sacramento della persona”, in L. MelinaS. Grygiel (a cura di), Amare l’amore umano. L’eredità di Giovanni Paolo II sul matrimonio e la famiglia, Cantagalli, Siena 2007, pp.173-185.

[9] Giovanni Paolo II, Uomo e donna, cit., CIII, pp. 397-399.

[10] Ibidem, CIV e CV, pp. 400-405.

[11] Cf. G. Marengo, “Legge naturale, corpo e libertà”, in L. MelinaJ. Noriega (a cura di),  Camminare nella luce. Prospettive della teologia morale a partire da “Veritatis splendor”, Lateran University Press, Roma 2004, 631-641.

[12] Giovanni Paolo II, Uomo e donna, cit., CXXX, 488.

[13] Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, n. 3.

[14] Cf. G. Mazzocato, “Il dibattito tra Doms e neotomisti sull’indirizzo personalista”, in Teologia 31 (2006), 249-275.

[15] Cf. A. Scola, Il mistero nuziale. 1. Uomo-Donna, Pul-Mursia, Roma 1998; 2. Matrimonio-Famiglia, Pul-Mursia, Roma 2000.

[16] Cf. L. MelinaJ. Noriega – J.J. Pérez-Soba, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale cristiana, Cantagalli, Siena 2008, 125-127.

[17] Sant’Agostino, De Trinitate, VIII, 8, 12.14. Si veda: J. Granados: «“Vides Trinitatem, si caritatem vides”: via del amor y Espiritu Santo en el “De Trinitate” de San Augustin», in Revista Augustiniana 43/130 (2002), 23-62.

[18] Mi permetto di rimandare al mio volume: L. Melina, Azione: epifania dell’amore. La morale cristiana oltre il moralismo e l’antimoralismo, Cantagalli, Siena 2008.

[19] Benedetto XVI, Deus caritas est, 11.

[20] Ibidem.

[21] A. Scola, “Il mistero nuziale. Originarietà e fecondità”, in Anthropotes XXIII/2 (2007), 57-70. Per una trattazione più sistematica, dello stesso autore si veda oltre ai due volumi dell’opera già citata: Il mistero nuziale: una prospettiva di teologia sistematica, Lateran University Press, Roma 2003.

[22] Citato in L. Irigaray, Éthique de la différence, Le Minuti, Paris 1984, 109 ; la nota affermazione nietzschiana si trova in Die "Vernunft" in der Philosophie, 5. Nello stesso senso anche Jacques Derrida aveva affermato che l’epoca dei significati è essenzialmente teologica e presuppone Dio (De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, 41).

[23] Sant’Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani, III, 3, citata da Benedetto XVI, Discorso conclusivo all’incontro con i vescovi svizzeri, 9 novembre 2006.

[24] Al riguardo: C. Anderson, A Civilization of Love. What Every Catholic Can Do to Transform the World,  Harper One, New York 2008; L. Melina, Per una cultura della famiglia. Il linguaggio dell’amore, Marcianum, Venezia 2006.